La psicoanalisi è nata da un medico il cui spirito era ben poco propenso a curare in senso medico.
Freud ebbe a confessare: “In verità io non sono mai stato propriamente medico (…) non so nulla che deponga per un mio bisogno di aiutare l’umanità sofferente”, insieme ad altre dichiarazioni simili, sistematizzate in modo più ufficiale nella sua definizione della psicoanalisi, scritta per una enciclopedia.
In realtà la passione di Freud era l’indagine scientifica, e nel suo specifico scoprire il funzionamento della mente umana rispetto al cervello. In effetti Freud fondò una scienza escogitandone, come in tutte le scienze, il metodo specifico che permetteva una conoscenza nuova di come è fatta la mente umana.
Questo originario e poco considerato aspetto della disposizione mentale del fondatore della psicoanalisi si è però tradotto, lungo il corso di due secoli, in una pratica professionale curativa, cosicché a livello popolare la psicoanalisi è stata recepita e percepita come cura, anche se gli psicoanalisti hanno continuato a proclamare che è una scienza.
La psicoanalisi è una cura?
Oggi la gente considera la psicoanalisi una cura e come tale si chiede se “funziona”. In tale domanda la psicoanalisi viene considerata una sorta di tecnica, in un quadro relazionale da me definito “transitivismo”: lo psicoanalista agirebbe transitivamente su un oggetto passivo. Come per i medici, ma anche per i fisioterapisti o gli allenatori, lo psicoanalista “fa” qualcosa sul paziente e questi si aspetta che quel farmaco etichettato “psicoanalisi” funzioni o no. Il paziente si aspetta di star meglio, di essere guarito, come oggetto passivo di un verbo attivo transitivo, in un “trattamento terapeutico”.
Transitivismo vuol dire che si fa troppo affidamento sul fatto che la prassi consista sempre in qualche cosa che il medico fa al paziente: qualcosa che “passa” (transita) dall’operatore all’utente. L’abitudine a una prassi transitiva può dar luogo a un uso improprio: per esempio nella prevenzione, si crede che basti dare nozioni, prescrizioni e buoni consigli perché il paziente si astenga da certe abitudini nocive. Come ben sanno gli igienisti, e gli altri operatori che si occupano di prevenire, per esempio, l’alcolismo, le malattie a trasmissione sessuale, le tossicodipendenze, gli effetti nocivi del fumo o altro, le nozioni e prescrizioni sono necessarie ma non sufficienti. Se l’operatore non adotta un modello più complesso, che implica la compartecipazione dell’utente, e un atteggiamento identificatorio da parte dell’operatore contrapposto all’atteggiamento manipolativo insito inevitabilmente nel modello prescrittivo (Imbasciati, Ghilardi, 1993), o comunque “persuasivo”, non si ottiene l’effetto desiderato. Così il transitivismo spesso inficia le campagne preventive.
[ La mente medica. Che significa umanizzazione della medicina? Antonio Imbasciati, Cap. 2, p. 15]
Viene meno, se mai c’è stato, l’interesse del paziente a capire attivamente cosa succede dentro di sé che non lo fa star bene, in una situazione in cui è lui che chiede un aiuto ad un altro per la propria intima persona, e quindi lo stimolo ad aprirsi nella propria intimità, con tutti i relativi affetti che egli avrebbe invece voluto scacciare. Non può in tal modo crearsi la reciproca relazione emozionale, molto diversa da quella con un medico, o con un asettico “esperto”: il quale, se il “trattamento” funziona, ti dirà ben quel che devi “fare”.
Ma questa non è psicoanalisi. L’analisi se la dovrebbe fare il paziente, al proprio Sé, ma occorre l’aiuto di un analista: il cervello del paziente, per le avverse vicende della vita, non è stato costruito in modo tale che la mente che ne consegue possa avere la capacità di provvedere ai difetti di questa costruzione.
Chiedersi se la psicoanalisi funziona è come chiedersi se funziona la fisica o l’antropologia, o la storia o la sociologia: ogni scienza ha i suoi metodi e le eventuali sue tecniche, ma sta alla competenza dello scienziato ottenerne risultati.
Pertanto, sta a chi si è adeguatamente addestrato a fare un lavoro psicoterapeutico di (con la) psicoanalisi, avere la competenza necessaria per ottenere un esito terapeutico, cioè che insieme al paziente si possa riuscire in una sufficiente “ricostruzione” di quel cervello-mente.
Suggerimenti
Consulta l’elenco delle pubblicazioni, in particolare: n. 071, n. 262, n. 268:
- [071] Imbasciati A., Strutture protomentali nell’atteggiamento terapeutico e in quello conoscitivo, Psicologia Clinica, 1983, 2, (1), pp. 11-41
- [262] Imbasciati A., La mente medica. Cosa significa “umanizzazione” della medicina?, Springer Verlag Italia, Milano, 2008, vol. pp. 254
- [268] Imbasciati A., Cristini C., Dabrassi F., Buizza C., Psicoterapia: orientamenti e scuole. Scienza, misconoscenza e caos nell’artigianato delle psicoterapie, C.S.E. Centro Scientifico Editore, Torino, 2008, vol. pp. 298. Acquisito da Edi-Ermes, Milano.