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Psicologia Clinica Perinatale (Vol. VI) – Promozione della salute mentale dei genitori per lo sviluppo neuromentale del bambino.

Autore/i capitolo: Imbasciati A., Cena L.

Con “perinatalità” si intende non solo quel periodo di vita della donna quando concepisce e mette al mondo un bambino, ma il periodo della vita di ogni individuo, dal feto ai primi mille giorni di vita, in cui vengono a costruirsi le fondamenta del suo cervello. In questo sviluppo perinatale fondamentale risulta la sua relazione coi genitori. Occorre pertanto una “promozione della salute mentale dei genitori per lo sviluppo neuromentale del bambino”, come recita il sottotitolo di questo libro, che è il seguito di altri cinque dei medesimi autori dedicati a questo argomento.

A distanza di due anni dalla diffusione del Covid si riscontra un significativo aumento delle manifestazioni di disagio giovanile con le relative forme di patologia psichica e di comportamenti asociali e/o criminali: si prospetta che tale aumento dei disturbi mentali sia conseguenza postuma del Covid, con pareri incerti se ciò voglia dire che il virus abbia provocato un qualche cambiamento nell’organismo umano, o piuttosto che gli eventi rilevati siano dovuti alle misure di isolamento prescritte in quasi tutti i paesi per contrastare la diffusione di questa “nuova peste”. Sul un mio blog ( www.imbasciati.it ) già da un anno considerai queste misure, che si presumevano innocue per la salute mentale e comunque sopportabili dagli esseri umani, in quanto potenziali agenti di un’altra, più insidiosa, malattia, a più lunga incubazione, che poteva essere denominata “lockdownite”, dovuta alla possibile azione patogena delle misure di protezione prolungate nell’intento di contenere il virus: malattia con latenza di anni in quanto queste misure potrebbero lentamente e anni prima aver cambiato il precedente assetto del Bodybrainmind (Imbasciati, 2020) di alcune persone. Malattia inoltre ben poco sopportabile, come invece ci si è abituati a credere per le malattie, tutte, presuntuosamente fiduciosi nelle cure della “scienza”. Dalla quale sotto sotto si pensa di escludere le scienze psicologiche.

Malattia oltretutto niente affatto prevedibile per una tempestiva prevenzione, perché, nei soggetti in cui si manifesta, il danno psichico, quando viene rilevato, ha già prodotto modificazione dell’assetto neurale che possono essere non reversibili e costituire un danno che condiziona ogni successiva esperienza; soprattutto nel periodo della prima infanzia, quando è più intensa e silenziosa la costruzione del cervello (struttura affettivo-caratteriale) carattere si rivela, dipenderebbe da un assetto neurale già avvenuto nella pregressa costruzione del cervello di quei soggetti, nella relazione coi genitori e nel regime relazionale delle misura anticovid. Oggi sappiamo che il cervello non si sviluppa per Natura, se non nella sua anatomia macroscopica e nel numero di neuroni, ma la microstruttura, cioè i collegamenti, la rete neurale (“connectoma”) e quindi la sua funzionalità, dipendono dalle vicende relazionali di quel feto-neonato-bambino (considerato fino ai 2/3 anni) che, elaborate da come quel cervello è in grado di fare in quel momento, lo “costruiscono” (Imbasciati, 2018, 2020; Imbasciati, Cena,2018, 2020). Nessuno ha un cervello uguale a quello di un altro (Ansermet, Magistretti, 2008). Nelle vicende di tale costruzione incidono soprattutto “i primi mille giorni di vita del bambino” (sottotitolo di un nostro volume) a contare dal concepimento. Il loro effetto sull’iniziale rete neurale condiziona il tipo della loro funzionalità e questa a sua volta condizionerà il tipo di elaborazione di ogni successiva vicenda di vita; e pertanto ogni successivo sviluppo della funzionalità (reti neurali) di quel cervello, i cui eventuale aspetti patologici si manifesteranno anni dopo, nella giovinezza e oltre.

Pertanto ciò che oggi constatiamo, circa manifestazioni indicate come disagio giovanile sarebbero dovute a un qualche cambiamento delle circostanze relazionali (genitori con bambino) di qualche lustro precedente, dovute alle misure anticovid della famiglia e dell’ambiente. In questa ipotesi le misure anticovid potrebbero aver indotto particolari modificazioni nella costruzione del cervello infantile, che in alcuni individui si sono sviluppate, dopo anni, in manifestazioni psicopatologiche, evidenti nella loro età adulta: in questa ipotesi c’è da aspettarsi che l’aumento dei casi che oggi viene segnalato sia destinato ad aumentare in futuro.

Le misure anticovid hanno in effetti provocato un notevole cambiamento in tutte le relazioni, soprattutto in quelle coi bambini: si pensi al linguaggio preverbale che si esprime nella modulazione dei contatti corporei, il cui valore di comunicazione affettiva strutturante da un secolo gli psicoanalisti segnalarono. Sappiamo oggi che la perinatalità, il cui nome siamo abituati per indicare per un periodo della vita di una donna, è molto più importante per il bambino. Le donne che segnalano disturbi nella gestazione e puerperio sarebbero la punta emergente di iceberg della universalità di un periodo critico ben più importante per tutti i bambini, in quanto strutturante le basi del loro cervello, nel bene e nel male. Per tali ragioni si presenta oggi ragionevole usare il termine “perinatalità” non più riferito ai casi in cui di esso abbiamo segnale in alcune puerpere, nella “loro” perinatalità, bensì riferendola al bambino stesso: dunque perinatalità di qualunque individuo umano. Nei nostri testi usiamo pertanto il termine “perinatalità” riferito al bambino, anziché alla donna, ed esteso ai primi suoi 2-3 anni, per tutto il periodo preverbale e oltre: per il rilievo determinante dello sviluppo affettivo primario nella costruzione delle fondamenta neurale di ogni successivo sviluppo.

Per quanto concerne eventuali conseguenza dopo il Covid, possiamo dunque arguire che quanto oggi riscontriamo sulla salute mentale giovanile può essere il segnale premonitore di un possibile più cospicuo e nefasto aumento nei prossimi anni, dovuto non tanto ad azione diretta e ritardata del virus, quanto alle condizioni relazionali della propria infanzia turbate (se non sconvolte) dalle misure di lockdown e conseguente regime di vita dei genitori e nella collettività. Queste condizioni fondanti ogni successivo sviluppo del cervello hanno predisposto a disfunzionalità che si manifestano come disturbi emergenti dopo molti anni. Inoltre l’intera sequenza di silenti trasformazioni dell’humus relazionale e sociale di cui si nutre lo sviluppo di un cervello e quindi di una mente umana, può essere prospettato passibile di una possibile ingravescenza tra una generazione l’altra; foriera pertanto di quelli che potranno essere gli umani del domani: i giovani di oggi sono quegli “uomini” che domani governeranno l’umanità.

Si potrà obbiettare che le suddette previsioni siano esagerate, se non apocalittiche, ma di fronte anche solo alla probabilità di una prospettiva come quella per ora ipotizzata, occorre provvedere a una prevenzione per tutti i possibili genitori, giacché a priori non possiamo sapere cosa quelle condizioni di vita possano aver condizionato in alcuni di essi, in una mutata care per il bambino, in quel cervello di quel loro “silente” infante, poi ragazzo, giovane e adulto. In altri termini in alcuni soggetti, di alcune famiglie, il lockdawn produrrebbe un effetto in via indiretta e postuma, però duraturo e condizionante lo sviluppo del cervello dei figli, in alcuni dei quali si manifesterebbe solo quando quel bimbo sarà diventato adulto.

Parlare in questi termini di lockdownite, cioè di possibile malattia postuma per la pregressa esposizione al lockdown, può bilanciare il perenne e illusorio ottimismo, imperante nelle nostre organizzazioni sanitarie nei confronti della “scienza”. In tale spirito nella letteratura corrente si preferisce parlare di effetti postumi del virus (dovuti al virus non al lockdown), o di longcovid, anziché, più esplicitamente, di conseguenze transgenerazionali di misure credute cure e/o precauzioni, che possono invece essere state condizioni iatrogene per lo sviluppo di un’altra “malattia”; meno visibile in quanto manifesta soltanto a livello psichico-comportamentale e a effetto postumo, ma più importante; e quindi da affrontare così come si affronta la prevenzione di qualunque “malattia”, in questo caso neuromentale o meglio socioneuromentale.

La suddetta tendenza a considerare il longcovid come residuo del virus o effetto di altri ceppi, cioè come malattie provocate da agenti esterni [1] appare riflettere una tendenza inconsapevole (inconscia) del collettivo sanitario e non, per cui si rifugge dal pensare che una malattia abbia manifestazioni solo psichiche (non riconosciute come tali dal soggetto), e ancor più soltanto comportamentali, che quindi si tende a credere che possano essere controllate dal nostro “libero arbitrio”, trascurando il fatto che anche di queste sindromi c’è il relativo fondamento neurale. Tuttavia si vuol continuare a credere, a livello popolare ma anche implicitamente nelle nostre organizzazioni sanitarie, seguendo i pregiudizi della nostra tradizione filosofico-teologica, che la coscienza degli esseri umani sia veritiera (Imbasciati, 2022) e che l’uomo abbia la capacità di controllare i propri sentimenti, superandone indenne i relativi disagi. Questi in realtà a livello di un inconscio collettivo ce li nascondiamo, al costo di negare che questi possano svilupparsi alla stregua di una “malattia”, e di non tener in conto che la nostra struttura mentale ha comunque il suo corrispettivo biologico nella funzionalità del proprio cervello; e questa è condizionata dall’esperienza del corpo. In altri termini si rifugge dal pensare il lockdown  come malattia e si preferisce incolpare la perdurante azione di un virus esterno (lockdownite). Potremmo concludere che un radicato pregiudizio, che potremmo definire “primato indiscusso della coscienza e della possibilità di controllarsi e autodeterminarsi”, comporta la cancellazione dei dati scientifici più recenti circa la costruzione del cervello nella prima infanzia.

L’homo sapiens ha sviluppato il cervello poiché nelle organizzazioni delle varie collettività civili ha incrementato e articolato la comunicazione interpersonale, e prima di tutto quella primaria preverbale, condizione indispensabile per la costruzione del cervello individuale, nell’effetto fondante delle interazioni umane primarie. La cosiddetta intelligenza si è sviluppata su tali basi. La comunicazione primaria, quella che gli psicoanalisti hanno denominato il mondo degli affetti, è indispensabile. Eppure ci si meraviglia, o meglio si tende a rifiutare che certe misure e certi costumi, introdotti nelle collettività umane per combattere le avversità, possano diventare causa di ulteriori peggiori condizioni di vita, alla stregua di nuove malattie, più nascoste, ottundendone la stessa specificità originaria. Eppure sappiamo che l’homo sapiens ha bisogno di una socialità che favorisca una effettiva comunicazione, in grado di sviluppare positivamente la costruzione del cervello (Imbasciati, 2018). Gli affetti, non quelli dichiarati coscientemente dal soggetto, ma quelli agenti effettivamente e silenziosamente per uno sviluppo positivo del cervello, producono quanto denominiamo intelligenza. Una effettiva comunicazione affettiva, che vivifichi e stimoli l’intelletto umano, è oggi forse degradata al rango del superfluo dall’evoluzione in atto della nostra società? Quale effetti si possono prevedere dall’uso del digitale? (post www.imbasciati.it).

Quanto qui prospettato sarà probabilmente criticato: questa critica potrebbe facilmente esser condotta con una mentalità in fondo simile a quella che qui si si critica: ma qual tipo di emozioni guida nell’uno piuttosto che nell’altro caso?

Una prevenzione va fatta, e sempre a vasto raggio se con essa si vogliono prevenire le varie forme che limitano una espansione positiva della mente umana: potremmo dire “le malattie che ancora non si conoscono”. In tal raggio di prevenzione trovano ragione a pieno titolo le critiche che in questo libro più volte si appuntano sulle attuali nostre organizzazioni sanitarie: per tutto ciò che concerne le manifestazioni della sofferenza psichica esse si mostrano organizzate come se si basassero su antichi pregiudizi dell’Occidente. Si demolisce il concetto stesso di Psicologia Clinica, adulterandolo nel senso delle scienze mediche, e di fatto si preclude una adeguata formazione (meglio ri-formazione) delle competenze degli operatori della psiche; se si vuole che questa “psiche”, degli uni e degli altri, sia “umana”.

 Tutto ciò sta generando molti interrogativi, mentre si profila il problema più generale. Come si farà a rimediare all’aumento e alla diffusione della sofferenza psichica, quale sta cominciando ad emergere, e che aumenterà ancor di più se ne consideriamo una manifestazione postuma rispetto alle sue cause? Come si svilupperanno questi danni della salute mentale, sia che li si considerino effetti di virus piuttosto che l’emergere di inconsuete sindromi che a una mentalità troppo esclusivamente biologizzata appaiono “strane”; come quella che qui è stata chiamata lockdownite. Tale ultimo nome ha suscitato spesso da ridere, come fosse una scherzo. Potremmo parlare di malattie del sociale, ma questo credo deresponsabilizzerebbe troppi. Già le malattie mentali tendono ad esser ridotte a deviazioni da una presunta normalità che devono essere curate mediante additivi biochimici sostitutivi di altrettanti difetti del metabolismo neurale, ma poco ci si chiede circa le cause psichiche, ovvero da disfunzionalità della rete neurale dovute ai cambiamenti nell’evoluzione sociale. Si mescola il tutto nel discorso del cosiddetto modello biopsicosociale: ma l’ultima parte di tal composito aggettivo ben poco viene collegata allo sviluppo di quanto può essere definito civiltà, o meglio di quanto potrà accadere nell’evoluzione della specie umana. Le nostre Organizzazioni sanitarie sembrano organizzate, appunto, per rassicurare che non occorre “scraniarsi”: la “scienza” provvederà. Un’adeguata discussione sulle misure di presunta sicurezza di fronte al Covid può allora servire come campanello d’allarme per una prevenzione che non si limiti a quanto viene denominato malattia per convenzione medicalistica.

Un po’ di allarme in questi ultimi due anni Covid, o lockdown che sia, sembrano averlo suscitato: negli ambienti sanitari si sta invocando “lo psicologo”. “Invocando”, in quanto non si sa bene cosa debba essere o fare questo psicologo, e come debba essere “usato”, perché possa esser davvero di aiuto ai problemi di cui la formazione medica ha lasciati gli operatori privi di cognizioni adeguate (post Lockdownite -una nuova parola per una nuova malattia). Quali sono e in che cosa consistono le competenze dello psicologo? Non sono conosciute, in quanto, a complicare il problema, queste competenze sono state pensate, ma sommariamente legiferate, cosicché di fatto non sussistono nella formazione che purtroppo si è data e si dà allo psicologo, in pratica al di là delle buone intenzioni del legislatore. Si dice che questo professionista debba avere una competenza “clinica”, senza sapere cosa esattamente questo aggettivo nella fattispecie delle scienze della psiche voglia significare. Ricordo al proposito come negli anni ’50 il maestro della psicologia italiana, Musatti, andava ripetendo nelle sue lezioni: “la Psicologia Clinica non è una clinica psicologica”; ovvero non è una clinica di tipo medico psicologizzata. Fatto è che la preparazione, o meglio la formazione dello psicologo è molto discutibile e ancor più incerta, inappropriata ed equivoca è quella delle specializzazioni in cui si è voluto diramare la laurea in psicologia; tanto meno quella denominata Psicologia Clinica.

Si aggiunga qui lo sviante riferimento dato correntemente al significato dell’aggettivo “perinatale”: da oltre trent’anni gli studi sul primo sviluppo del bambino mostrano come questo dipenda essenzialmente dalla relazione con la madre, fin dal concepimento, e pertanto sia opportuno monitorare le donne in gravidanza, indipendentemente dal fatto che in queste si manifestino disturbi. Prima delle attuali conoscenze sulla relazione tra madre gestante e sviluppo del cervello del bimbo, quando ancora si credeva che quest’ultimo avvenisse per natura, cioè pressappoco fino a mezzo secolo fa, gli eventuali disturbi psichici di gestanti e puerpere venivano curati semplicemente in riferimento alla donna, cosicché il termine “perinatalità” è entrato nell’uso medico sanitario e popolare a significare un periodo critico della vita della donna. Questo significato, a livello popolare e purtroppo nel linguaggio corrente delle istituzioni sanitarie, è rimasto, malgrado i lustri passati, come esclusiva attribuzione alla donna, cosicché ancor oggi sembra difficile attribuire il termine “perinatalità” alla figura del protagonista più importante, il bimbo, e per qualunque gravidanza, anche per quelle più tranquille. Questo ancoraggio del termine perinatalità resta ad indicare che ancor oggi non si è assimilato ciò che sappiamo sullo sviluppo primario del cervello e nella mente dei bambini, quasi si volessero conservare le antiche convinzioni su di una Natura provvida che guida lo sviluppo dell’homo sapiens. Di qui il nostro insistere, nei nostri testi, sul significato di “perinatalità” per tutti i bambini, anzi per tutte le persone, a ricordare che i primissimi anni di vita condizionano lo sviluppo diadico (e familiare) di tutti: lo sviluppo relazionale che costruisce il cervello, sviluppo essenzialmente affettivo come da un secolo gli psicoanalisti avevano intuito.

Di qui anche la nostra attenzione a “lo psicologo” e a cosa voglia dire Psicologia Clinica: l’ambiente delle nostre Organizzazioni (si intenda la maiuscola nel significato individuato da Elliott Jacques), la mentalità consolidatasi in ambito medico (Imbasciati, 2008), stanno attualmente, con la pressione del Covid, “invocando” la figura dello psicologo, senza però sapere cosa questo faccia e significhi e quindi senza preoccuparsi di come formarlo, riformando il curriculum di formazione alla luce di un chiarimento su cosa possa essere la Psicologia Clinica. Altrimenti si continuerà a considerare “lo psicologo” come un bon a tout faire, competente di tutto e di nulla, che –non si sa come- può servire da sollievo a qualche medico (anche psichiatra?) infastidito da pazienti “un po’ strani”.

Ultimo guaio: la ricerca scientifica di questi ultimi lustri si è appiattita su un sistema automatizzato delle proposte di pubblicazione mediante punteggi prestabiliti (oppure a pagamento dell’autore-ricercatore, poiché i giovani non amano leggere tanto meno comprar libri o riviste): l’idea, anzi l’ideale, era favorire una maggiore obbiettività del giudizio sul valore scientifico di ciò che viene proposto alle riviste o per libri di garanzia scientifica per fama e serietà di alcuni editori, le quali e i quali dovrebbero essere davvero competenti e garanti. Il risultato è stato dare ai valutatori meno carico di lavoro, meno fatica e meno tempo da dedicarci; oppure di farsi pagare dagli autori. Siamo il Italia: che succede in questi casi? E i valutatori che competenza hanno? Non vengono pagati. E che succede per una garanzia editoriale della scientificità, se comunque paga l’autore?


[1] Recentemente periodico destinato a tutti i medici (www. dottnet.it, 27/09/22) discute sulle supposizioni di altri ceppi di virus nonché di alterazioni ormonali di cui non si spiega la genesi, ma non si interroga sulle cause che possono aver cambiato Le reti neurale che regolavano il precedente Bodybrainmind. Così pure si esprimono altre diffuse notifiche nell’ambiente sanitario.

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